Ultima modifica: 27 Febbraio 2016

Test di Intelligenza

I test di intelligenza, nati in Francia con lo scopo di aiutare i bambini in difficoltà a scuola, furono utilizzati negli Stati Uniti per discriminare gli stranieri che arrivarono nel porto di Ellis Island all’inizio del 1900. Di seguito si può leggere un articolo tratto dal libro “Inteligenza e pregiudizio” di S.J. Gould.

Test di intelligenza, discriminazione e razzismo

Nel 1904 Binet fu incaricato dal ministro della Pubblica istruzione di effettuare uno studio con uno scopo specifico e pratico: sviluppare tecniche per identificare quei bambini il cui insuccesso nelle classi normali suggeriva la necessità di particolari forme di educazione. Binet scelse un corso puramente pragmatico. Per svolgere il suo lavoro, decise di mettere insieme una lunga serie di brevi compiti relativi a problemi della vita di tutti i giorni, per esempio contare monete o stabilire quale volto fosse più «grazioso», supponendo che tali compiti includano dei processi di base del ragionamento come la «direzione (ordinare), la comprensione, la capacità inventiva e la critica (correggere)» (Binet, 1909). Le abilità apprese, come per esempio la lettura, non sarebbero state trattate esplicitamente. I test erano somministrati individualmente da esaminatori esperti che guidavano i soggetti attraverso i compiti ordinati in base alla loro difficoltà. Diversamente dai precedenti test progettati per misurare «facoltà» specifiche e indipendenti dalla mente, la scala di Binet era un insieme di varie attività. Binet sperava che riunendo abbastanza test relativi ad abilità differenti, sarebbe stato in grado di riassumere in un singolo punteggio il potenziale generale di un bambino. Binet pubblicò tre versioni della scala prima della sua morte nel 1911. L’edizione del 1905 collocava semplicemente i compiti in ordine crescente di difficoltà. La versione del 1908 stabiliva il criterio usato nella misurazione di ciò che da allora fu detto QI Binet decise di assegnare a ogni compito un livello d’età definito come l’età più giovane alla quale un bambino di intelligenza normale dovrebbe essere in grado di completare il compito con successo. Il bambino iniziava il test Binet con i compiti per l’età più giovane e procedeva in sequenza finché non poteva più completarli. L’età associata con gli ultimi compiti che poteva effettuare corrispondeva alla sua «età mentale» e il suo livello intellettivo generale era calcolato sottraendo la sua età mentale dalla sua reale età cronologica. I bambini la cui età mentale era sufficientemente al di sotto dell’età cronologica potevano allora essere identificati per i programmi di educazione speciale. Binet aveva in tal modo svolto il suo incarico per il ministero. Nel 1912 lo psicologo tedesco W. Stern sostenne che l’età mentale doveva esser divisa per l’età cronologica e non sottratta da essa. Nacque così il quoziente d’intelligenza o QI. Il QI ha avuto conseguenze rilevanti nel nostro secolo, e alla luce di ciò dovremmo indagare sui motivi di Binet anche solo per comprendere come le tragedie del suo errato uso sarebbero state evitate se il suo fondatore fosse ancora vivo e le sue preoccupazioni fossero state ascoltate. Binet cercò «di separare l’intelligenza naturale dall’istruzione» (1905, p. 42) nella sua scala: «È soltanto l’intelligenza che cerchiamo di misurare, eliminando il più possibile il grado di istruzione che il bambino possiede [ ]. Non gli diamo niente da leggere, niente da scrivere e non lo sottoponiamo a nessun test nel quale egli potrebbe avere successo per mezzo di ciò che ha precedentemente appreso» (ibid.). «È una caratteristica particolarmente interessante di questi test che ci permettono, quando necessario, di liberare la bellezza dell’intelligenza innata dalle pastoie della scuola.» (1908, p. 259). Eppure, nonostante questo ovvio desiderio di eliminare gli effetti superficiali dovuti chiaramente alla conoscenza acquisita, Binet rifiutò di definire e speculare sul significato del punteggio che assegnò a ogni bambino. L’intelligenza, proclamò Binet, è troppo complessa per catturarla con un semplice numero. Parlando propriamente, la scala non permette una misurazione dell’intelligenza, perché le qualità intellettuali non sono sovrapponibili, e quindi non possono essere misurate come può essere misurata una superficie lineare. (1905, p. 40) Inoltre, il numero è soltanto una media di tante prestazioni e non un’unica entità. L’intelligenza, ci rammenta Binet, non è una singola cosa rappresentabile in scala come l’altezza. «Sentiamo la necessità di insistere su questo fatto» mette in guardia Binet (1911) «perché in seguito, nell’interesse della semplicità, parleremo di un bambino di otto anni che ha l’intelligenza di uno di sette o nove anni; queste espressioni, se accettate arbitrariamente, possono dar luogo a illusioni.». Binet aveva anche un motivo sociale per la sua evasività. Temeva molto che questo suo strumento pratico, se materializzato come entità, potesse essere alterato e usato come un’etichetta indelebile piuttosto che come una guida per identificare i bambini bisognosi di aiuto. La sua preoccupazione era che i maestri con «zelo esagerato» potessero usare il QI come una comoda scusa: «Essi sembrano ragionare nel modo seguente: “ecco un’ottima opportunità per liberarci dei bambini che ci pongono problemi, e senza un vero spirito critico, designano coloro che sono risultati indisciplinati o disinteressati alla scuola” (1905, p. 169). Non solo Binet rifiutò di definire il QI come intelligenza innata; si rifiutò anche di considerarlo uno strumento generale per classificare tutti gli alunni secondo il loro valore mentale. Costruì la sua scala soltanto per il limitato scopo dell’incarico avuto dal ministro della Pubblica istruzione: come guida pratica per identificare i bambini le cui scarse prestazioni indicavano il bisogno di un’educazione speciale: quelli che oggi verrebbero chiamati disagiati nell’apprendimento o leggermente ritardati. Binet scriveva: «Siamo dell’opinione che il miglior uso della nostra scala non sarà nell’applicazione agli alunni normali, ma piuttosto a quelli con minor grado di intelligenza» (1908, p. 263). Binet si rifiutò di speculare sulle cause delle scarse prestazioni. In ogni caso i suoi test non erano conclusivi: ”Nostro scopo è quello di essere in grado di misurare la capacità intellettiva di un bambino che ci è stato portato per sapere se è normale o ritardato. Dovremmo quindi studiare la sua condizione in quel momento e solo in quel momento. Non abbiamo niente a che fare né con il suo passato né con il suo futuro, di conseguenza trascureremo la sua eziologia, e non faremo nessun tentativo per distinguere fra idiozia congenita e acquisita [ ]. Per quanto riguarda il suo futuro noi adotteremo la stessa posizione; non tenteremo di stabilire o formulare una prognosi, e lasceremo senza risposta la questione se questo ritardo sia curabile o anche lo riducibile. Ci limiteremo ad accettare la verità riguardo al suo attuale stato mentale (1905, p. 37)”. Ma di una cosa Binet era sicuro: qualsiasi fosse la causa della scarsa prestazione a scuola, l’obiettivo della sua scala era di identificare per aiutare e migliorare, non per categorizzare e limitare. Alcuni bambini potevano essere incapaci, per motivi innati, di raggiungere un apprendimento normale, ma tutti potevano migliorare grazie a un aiuto speciale. La differenza tra gli innatisti stretti e i loro oppositori non è, come alcune caricature suggeriscono, il credere che il comportamento del bambino è dovuto totalmente a fattori innati o a fattori ambientali e di apprendimento. Dubito che i più convinti antinnatisti abbiano mai negato l’esistenza di differenze innate fra i bambini. Le differenze sono più una questione di politica sociale e di pratiche educative. Gli innatisti vedono le loro misure dell’intelligenza come segni di limiti innati e permanenti. Bambini così classificati potrebbero essere scelti e addestrati secondo le loro caratteristiche ereditarie e indirizzati verso caratteristiche ereditarie e indirizzati verso professioni appropriate alla loro «costituzione biologica». L’uso del reattivo mentale diviene così una teoria dei limiti. Gli antinnatisti come Binet usano i test al fine di rilevare le caratteristiche mentali dei bambini, per aiutare. Senza negare il fatto evidente che non tutti i bambini, qualunque sia stato il loro addestramento educativo, saranno dei geni come Newton ed Einstein, essi mettono in rilievo il potere dell’educazione creativa per aumentare le capacità di successo di tutti i bambini, spesso in modo esteso e inaspettato. L’uso dei reattivi mentali diventa una teoria per incrementare la potenzialità del bambino attraverso un’educazione appropriata. “Come possiamo aiutare un bambino se lo definiamo incapace di riuscire a causa delle nostre convinzioni biologiche? Se non facciamo niente, se non interveniamo attivamente e utilmente, continuerà a perdere tempo [ ] e alla fine sarà scoraggiato. La situazione è molto seria per lui, e dato che il suo non è un caso eccezionale (dato che i bambini con difetti di comprensione sono legioni), potremmo dire che è per noi tutti e per tutta la società una questione seria. Il bambino che perde il piacere di lavorare in classe rischia fortemente di essere incapace di acquisirlo in seguito quando avrà lasciato la scuola. (Ivi, p. 100)” Binet reagì contro il detto «la stupidità dura sempre» («quand on est bête, c’est pour longtemps»), e rimproverò gli insegnanti che «non sono interessati agli studenti carenti in intelligenza. Essi non hanno né simpatia né rispetto per questi, e il loro linguaggio incontrollato li spinge a dire, in loro presenza, cose tipo: Questo è un bambino che non combinerà mai niente [ ], è scarsamente dotato [ ], non è affatto intelligente. Quante volte ho sentito queste parole imprudenti» (ibid). Binet cita poi un episodio della sua discussione di laurea quando un esaminatore gli disse che non avrebbe mai avuto un «vero» spirito filosofico: «Mai! Che parola imponente. Alcuni recenti pensatori sembrano aver dato il loro sostegno morale a questi deplorevoli verdetti, affermando che l’intelligenza di un individuo è una quantità fissa, una quantità che non può essere aumentata. Dobbiamo protestare e reagire contro questo brutale pessimismo; dobbiamo cercare di dimostrare che è fondato sul nulla» (ivi, p. 101). I bambini identificati dai test di Binet lo erano al fine di essere aiutati e non per essere indelebilmente etichettati. Binet aveva suggerimenti pedagogici definiti e molti di questi furono seguiti. Credeva, soprattutto, che l’educazione speciale deve essere adeguata ai bisogni individuali dei bambini svantaggiati: deve essere basata sul «loro carattere, le loro attitudini, e sulla necessità di adattarsi ai loro bisogni e capacità» (ivi, p. 15). Binet suggerì piccole classi composte da quindici, venti studenti, invece di sessanta, ottanta allora comuni nelle scuole pubbliche frequentate dai bambini poveri. In particolare, difese i metodi speciali d’educazione, fra i quali incluse un programma che chiamò «ortopedia mentale»: Quello che dovrebbero dapprima apprendere non sono le materie d’insegnamento ordinarie, per quanto importanti esse siano, ma lezioni di volontà, attenzione e disciplina; prima della fatica grammaticale essi hanno bisogno di esercitarsi nell’ortopedia mentale. In una parola, devono imparare ad apprendere. (1908, p. 257) L’interessante programma di ortopedia mentale includeva una serie di esercizi fisici progettati per migliorare, tramite il trasferimento a funzioni mentali, la volontà, l’attenzione e la disciplina che Binet vedeva come prerequisiti per lo studio delle materie scolastiche. In uno di questi, chiamato l’exercise des statues, e ideato per migliorare la sfera di attenzione, i bambini si muovevano energicamente finché non veniva detto loro di assumere e mantenere una posizione immobile. (Quando ero bambino anch’io giocavo così nelle strade di New York e anche noi chiamavamo questo gioco «alle statue».) Ogni giorno il periodo di immobilità doveva essere aumentato. In un altro gioco, ideato per migliorare la velocità, i bambini riempivano un foglio di carta con tanti punti quanti era loro possibile in un determinato tempo. Binet parlò con piacere del successo delle sue classi speciali (1909, p. 104) e sostenne che gli alunni che ne avevano beneficiato avevano aumentato non solo le loro conoscenze, ma anche la loro intelligenza. L’intelligenza, qualunque sia il suo significato, può essere aumentata da una buona educazione, non è una quantità fissa e innata. Lo scienziato Goddard lavorò durante il primo fiorire dell’eccitazione che salutò la riscoperta del lavoro di Mendel e la decifrazione di base dell’ereditarietà. Ora noi sappiamo che virtualmente ogni principale caratteristica del nostro corpo è costruita attraverso l’interazione di molti geni tra di loro e con l’ambiente esterno. Ma in quei primi giorni, molti biologi ingenuamente supponevano che tutte le caratteristiche umane si comportassero come il colore e la grandezza, o il corrugamento dei piselli di Mendel; in breve, credevano che anche le parti più complesse di un corpo potessero essere costruite da singoli geni, e che le variazioni nell’anatomia o nel comportamento registrassero le diverse forme dominanti e recessive di questi geni. Gli eugenetisti afferrarono questa sciocca idea con avidità, in quanto permetteva loro di asserire che tutte le caratteristiche indesiderabili potessero essere attribuite a singoli geni, ed eliminate con un’appropriata limitazione della procreazione. La prima letteratura eugenetica è infarcita di speculazioni e di discendenze laboriosamente compilate e rabberciate circa il gene che causa l’istinto a viaggiare, rintracciato attraverso linee familiari di capitani di marina, o il gene del temperamento che rende alcuni di noi tranquilli e altri prepotenti. Non dobbiamo essere fuorviati dal fatto che oggi tali idee sembrano sciocche; esse rappresentarono, anche se per breve tempo, la genetica ortodossa ed ebbero un elevato impatto sociale in America. Goddard collegò questo effimero carrozzone con l’ipotesi che doveva rappresentare un elemento definitivo nel tentativo di materializzazione dell’intelligenza. Provò a tracciare le genealogie dei deficienti mentali nella sua scuola di Vineland e concluse che la «debolezza mentale» ubbidiva alla legge mendeliana dell’ereditarietà. La deficienza mentale deve quindi essere una cosa definita e deve essere governata da un singolo gene indubbiamente recessivo rispetto all’intelligenza normale (1914, p. 539). «L’intelligenza normale» Goddard concluse «sembra essere un carattere unitario, trasmesso precisamente in maniera mendeliana.» (Ivi, p. IX) “Se la deficienza mentale è l’effetto di un singolo gene, la strada che porta alla sua eventuale eliminazione si stende con evidenza davanti a noi: non permettere a tali persone di far figli. Se entrambi i genitori sono deboli mentali, tutti i loro bambini lo saranno. È ovvio che simili accoppiamenti non dovrebbero essere permessi. È perfettamente chiaro che a nessuna di tali persone dovrebbe mai essere concesso di sposarsi o di divenire genitori. È ovvio che se questa norma deve essere messa in atto, la parte intelligente della società deve imporla. Non solo hanno poco controllo, ma spesso gli fa difetto la percezione delle qualità morali, anche se non gli è permesso di sposarsi, non gli è tuttavia impedito di divenire genitori. Così, se vogliamo evitare assolutamente che una persona debole di mente divenga genitore, si deve far qualcos’altro che proibire semplicemente il matrimonio. A tal fine ci sono due proposte: la prima è la colonizzazione, la seconda è la sterilizzazione. (1914, p. 566)”. Goddard non si opponeva alla sterilizzazione, ma la considerava impraticabile perché la tradizionale suscettibilità di una società non ancora del tutto razionale avrebbe impedito una mutilazione così estesa. La soluzione da preferire doveva essere quella della colonizzazione in istituti esemplari come il suo a Vineland, New Jersey. Solamente qui la riproduzione dei “deboli di mente” (chiamati da Goddard moron) poteva essere ridotta. All’interno di questi istituti, i moron potevano agire in sintonia al loro livello biologicamente fissato, veniva negata loro solo la fondamentale biologia della loro sessualità. Goddard concludeva il suo libro sulle cause della deficienza mentale con questa richiesta per la cura dei moron istituzionalizzati: «Trattateli come bambini in conformità alla loro età mentale, incoraggiateli ed elogiateli costantemente, non scoraggiateli o non rimproverateli mai; e li farete felici» (1919, p. 327). Una volta che Goddard ebbe identificato la causa della debolezza mentale in un singolo gene, la cura sembrava abbastanza semplice: non permettere ai moron del luogo di procreare e tener fuori quelli stranieri. Come contributo al secondo provvedimento, Goddard e i suoi colleghi visitarono nel 1912 Ellis Island «per osservare le condizioni e offrire qualsiasi suggerimento per quanto poteva essere fatto per assicurare un più completo esame degli immigranti allo scopo di individuare i deficienti mentali» (1917a, p. 253). Quel giorno, come Goddard descrisse la scena, la nebbia incombeva sul porto di New York e nessun immigrante poteva sbarcare. Ma un centinaio erano quasi pronti a partire, quando Goddard intervenne: «Scegliemmo un uomo giovane che sospettavamo deficiente, e attraverso l’interprete, procedemmo a somministrargli il test. Il ragazzo conseguì un punteggio di 8 nella scala di Binet. L’interprete disse: “Io non ero in grado di farlo quando venni in questo paese, e sembrava pensare che il test fosse ingiusto. Lo convincemmo che il ragazzo era deficiente” (1913, p. 105). Incoraggiato da questa che fu una delle prime applicazioni della scala Binet in America, Goddard si procurò fondi per uno studio più esauriente, e nella primavera del 1913 inviò per due mesi e mezzo due donne alla Ellis Island. Esse erano istruite a individuare il debole mentale a vista, un compito che Goddard preferiva assegnare alle donne, cui attribuiva una superiore intuizione innata: “dopo che una persona ha avuto una considerevole esperienza in questo lavoro, acquista quasi il senso di che cosa sia la persona debole di mente, così che può riconoscerla da lontano. Le persone più indicate per questo lavoro, e che io credo lo svolgerebbero al meglio, sono le donne. Esse sembrano possedere una capacità di osservazione più fine degli uomini. Era del tutto impossibile per gli altri capire come queste due giovani donne potessero individuare il debole di mente senza ricorrere affatto al test di Binet. (Ivi, p. 106)” Le donne di Goddard sottoposero a reattivo mentale 35 ebrei, 22 ungheresi, 50 italiani e 45 russi. Questi gruppi non potevano essere considerati come campioni casuali, poiché i funzionari statali avevano già «eliminato quelli che erano stati da loro riconosciuti come deficienti». Per equilibrare questa tendenza, Goddard e i suoi assistenti fecero così: «tralasciarono gli individui chiaramente normali. Ciò ci lasciò la grande massa degli immigranti medi » (1917a, p. 244). I test di Binet sui quattro gruppi portarono a un risultato stupefacente: l’83 per cento degli ebrei, l’80 per cento degli ungheresi, il 79 per cento degli italiani, e l’87 per cento dei russi erano deboli di mente; cioè al di sotto dell’età di 12 anni nella scala Binet. Goddard stesso fu sbalordito: chi poteva credere che i quattro quinti degli abitanti di ogni nazione fossero moron? «I risultati ottenuti nella suddetta valutazione dei dati sono così sorprendenti e difficili da accettare che possono essere a malapena ritenuti validi» (ivi, p. 247). Forse i test non erano stati adeguatamente spiegati dagli interpreti? Alla fine, Goddard armeggiò con i test, ne scartò diversi e ottenne valori al di sotto del 40-50 per cento, ma nonostante ciò era scontento. I risultati ottenuti da Goddard erano anche più assurdi di quanto potesse immaginare per un evidente motivo. Proviamo a prendere in considerazione un gruppo composto da uomini e donne impauriti, che non parlano inglese e hanno appena sopportato un viaggio attraverso l’oceano su un ponte di terza classe. La maggior parte sono poveri e non sono mai andati a scuola, molti non hanno neppure mai tenuto una matita o una penna in mano. Si allontanano dalla nave, poi una delle intuitive donne di Goddard li prende da parte, li fa sedere, mette loro in mano una matita e chiede di riprodurre su un foglio un disegno che era stato mostrato loro un momento prima, ma che ora è sottratto alla loro vista. Il loro fallimento potrebbe essere considerato il risultato delle condizioni in cui si svolge la prova, di debolezza, paura o confusione, piuttosto che di stupidità innata? Goddard considerò questa possibilità ma la scartò: «Non possiamo evitare di giungere alla conclusione generale che questi immigranti posseggono un’intelligenza sorprendentemente bassa» (ivi, p. 251). Che cosa fare allora? Tutti questi moron dovevano essere reimbarcati o addirittura si doveva impedire loro innanzitutto di arrivare? Presagendo le restrizioni che sarebbero state legiferate entro un decennio, Goddard sostenne queste sue conclusioni: «Attribuire particolare considerazione alle azioni future in campo scientifico, sociale e legislativo» (ivi, p. 261). Al tempo stesso, in patria, i deboli di mente dovevano essere identificati e doveva essere impedito loro di procreare. In diversi studi Goddard espose la minaccia della stupidità, pubblicando genealogie di centinaia di buoni a nulla, persone affidate alla cura dello Stato e della comunità, che non sarebbero mai nate se ai loro antenati deboli di mente fosse stato proibito di procreare.